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La mia intervista a Maurizio Galimberti

Per lo speciale RITRATTI del n.26 di HESTETIKA MAGAZINE ho avuto il piacere di intervistare il noto artista e fotografo Maurizio Glimberti, a cui è stata dedicata una delle copertine interne.

HESTETIKA N. 26

In edicola, in libreria e su Applestore

“IL RITRATTO NASCE DAL SILENZIO”

Per Maurizio Galimberti la fotografia è una questione di ritmo, musica e movimento. I suoi noti mosaici realizzati con Polaroid ne caratterizzano lo stile. Ma è nel silenzio, ci confessa, che affiorano i suoi famosi ritratti.

Testo di Laura Luppi

Non è solo un grande maestro della fotografia analogica; Maurizio Galimberti è anche una persona gentile e disponibile. Accetta questa mia intervista e mi aiuta a comprendere meglio come prendono vita le composizioni dinamiche dei volti che cattura in decine di immagini istantanee.

La prima domanda è di rito: com’è nata la tua passione per Polaroid?

Da bambino non mi piaceva stare al buio, per questo motivo non ho mai amato la camera oscura. Polaroid mi ha permesso di ottenere subito il risultato dei miei scatti, senza rinunciare alla luce. Diciamo che la scelta è stata dettata da un bisogno fisico, per poter continuare a fotografare.

Fotografia istantanea, dunque, per la quale l’aspetto istintivo è predominante. I tuoi lavori, però, dimostrano una progettazione compositiva rilevante. Quanto spazio lasci all’istinto e quanto all’idea?

La mia progettualità generale nasce con uno sguardo attento al cubismo e al futurismo, e in particolare al “Nudo che scende le scale di Duchamp”, però l’attimo dello scatto è assolutamente istintivo. Non passo molto tempo a pensare. Quando decido di scattare, lo faccio senza fermarmi. Poi metto insieme le foto nell’ordine in cui le ho fatte, senza modificare nulla. Il mio lavoro ha una forte progettualità di base, è vero, ma al momento dello shooting diventa istinto puro.

Con la tua personale tecnica, i volti ritratti – decostruiti e poi ricostruiti – disegnano linee e forme che paiono vere e proprie architetture. Quanto c’è della lezione dei grandi maestri, tra cui quello citato, e quanto della tua esperienza personale?

Per me fotografare è un po’ come suonare, dividere lo spazio in particelle musicali; che poi questo spazio sia un volto o un’architettura cambia poco. Soprattutto negli ultimi anni mi sono ispirato alla musica di Glenn Gould, alla sua massima dilatazione, al tempo lungo; lui mangiava mentre suonava, era dentro alla sua musica. Nelle mie composizioni avviene qualcosa di simile. Per quanto riguarda l’ispirazione alla storia dell’arte, di sicuro c’è la lezione futurista. Non si tratta solo di una fisicità scomposta e ritagliata – come in Braque, in Picasso o in David Hockney -, ma di un’intenzione che guarda anche alla storia della scultura, alla “Colonna senza fine” di Brancusi, alle spirali dinamiche di Boccioni fino, appunto, al dilatarsi del “Nudo che scende le scale” di Duchamp.

Musicalità, ritmo, movimento. Per realizzare i tuoi mosaici fotografici compi delle vere performance. È così?

Sì, è così. E ho notato che suscitano grande interesse, per questo ne faccio molte.

Nei tuoi ritratti alcuni dettagli assumono una certa importanza, come ad esempio il movimento dei capelli, la presenza di particolari accessori, la posizione delle mani. Che ruolo hanno nella definizione della personalità del soggetto?

Per me il soggetto deve stare in silenzio. Nel suo silenzio viene fuori il mio ritratto. Citando Cartier Bresson, “cerco soprattutto un silenzio interiore, cerco di tradurre la personalità e non un’espressione”. Jean-Luc Nancy a riguardo scriveva: “il vero ritratto è quello in cui il personaggio rappresentato non è colto in nessuna azione, né adotta un’espressione che svii dalla persona stessa”. Le mani servono a dare movimento al mio progetto strutturale, a farlo diventare un quadro futurista; sono funzionali all’estetica del ritratto, mentre la sua parte intima è tutta concentrata sul volto colto nel silenzio totale. A partire dalle fonti a cui mi ispiro, come detto Brancusi e Boccioni ad esempio, le mani mi consentono di portare l’immagine da una dimensione quasi cubista a una dimensione futurista duchampiana attraverso la dilatazione e la ripetizione. Esse mi permettono di scrivere sul volto di una persona. Le mani portano il ritratto nella mia scrittura.

Recentemente è uscito “Portraits 2016”, il volume dedicato ai tuoi celebri ritratti, edito da Silvana Editoriale e curato da Benedetta Donato. Punto di arrivo e, allo stesso tempo, nuovo punto di partenza?

Sì, sicuramente. Il volume include una selezione di miei lavori dagli esordi fino al 2016, le immagini più significative di un percorso iniziato nel 1989. L’antologia racconta le tappe della mia storia attraverso i personaggi che ho fotografato, ma anche le varie tipologie e modalità di ritratto realizzate da me negli anni. Rappresenta la sintesi di un unico capitolo che in parte si chiude; una sorta di linea di confine. Da qui infatti comincia una nuova fase, ancora più musicale. I miei ritratti stanno diventando sempre più intimi e spirituali, più forti. E poi sto puntando a dimensioni più importanti, come ho fatto recentemente per Venezia.

Proprio riguardo a questo volevo porti un’ultima domanda. Ha inaugurato a maggio la 57° edizione della Biennale e due tue opere sono presenti all’interno del Padiglione Venezia, intitolato Luxus, curato da Stefano Zecchi e sotto la direzione artistica di Beatrice Mosca. Ce ne parli?

Certo. Le opere sono “Goldenhair”, del 2009, e “Il Minuetto di Carnevale”, una rivisitazione dell’opera di Giandomenico Tiepolo a cui mi sono dedicato con la stessa modalità dei ritratti. Non si tratta di un volto o di una figura unica, ma di una scena in cui sono presenti numerosi personaggi; una scena dilatata quasi a diventare un ballo plastico di Depero, un quadro di Boccioni. Sono due mosaici giganti, che seguono lo spirito di questo mio momento: il bisogno di passare dal piccolo al grande spartito, dalle piccole alle grandi scritture.