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Intervista a Petra Conti

Sul n°33 di HESTETIKA, l’intervista alla Principal Dancer del Los Angeles Ballet, e già Prima Ballerina della Scala di Milano.

“Danzare la vita”, perché la forza per superare gli ostacoli si trova anche e soprattutto nelle nostre passioni, come la danza.

HESTETIKA vol. 33 Aprile 2019

 

PETRA CONTI

Danzare la vita

A cura di Laura Luppi

Intervista a Petra Conti, attuale Principal Dancer al Los Angeles Ballet e già Prima ballerina del Teatro alla Scala di Milano, ambasciatrice della danza italiana nel mondo e ideatrice del progetto “POINTE SHOES for a CURE”, una raccolta fondi per la ricerca e la cura del cancro infantile.

 

Quando la danza diventa una professione, essa spesso nasce da un’urgenza, da una necessità; una missione a cui si è predestinati, ma non priva di ostacoli, sacrifici e difficoltà. E se la strada intrapresa con dedizione e determinazione è quella giusta, i risultati non tardano ad arrivare. Così è stato per Petra Conti, nata nel 1988 da padre italiano e da madre polacca, danzatrice che ha ottenuto fin dagli esordi importanti riconoscimenti internazionali, interpretando i ruoli principali del balletto classico sui palcoscenici più prestigiosi del mondo. La malattia felicemente sconfitta, un cancro al rene diagnosticatole nel 2016, l’ha inoltre avvicinata all’organizzazione non profit CURE Childhood Cancer di Atlanta (USA), a sostegno della ricerca soprattutto a favore dei più piccoli.

Petra, per prima cosa è un grande onore per me poterti intervistare e ti ringrazio sentitamente per aver accettato. Da appassionata mi sono sempre chiesta come possa davvero essere la quotidianità di una Étoile, di chi dedica la sua giornata, i suoi pensieri, la sua energia interamente alla danza. La prima domanda sarà subito personale, magari apparentemente banale, eppure assolutamente necessaria: Petra, cos’è per te la danza?

La danza è il mio canale preferito di comunicazione, è il mio modo di sfogare le emozioni, un bisogno innato. Del resto la danza è nata con l’uomo, è uno dei mezzi di espressione più forti e antichi che esistano, ed è un linguaggio universale che unisce tutti.

Puoi raccontarci il primo ricordo che hai della danza nella tua infanzia, il primo approccio al movimento, alla musica?

Mia mamma e mia sorella sono state ballerine, e in casa si è sempre respirata aria di arte, aria di danza; ricordo che ballavo in corridoio sulle musiche di Chopin. Era poi una cosa assolutamente normale vedere mamma che si “stretchava” in spaccata di tanto in tanto.

Intraprendere fin da piccola un percorso professionale deve aver comportato molteplici difficoltà: disciplina, impegno, regole, ritmi da rispettare e un approccio alla vita già da adulto. Secondo la tua opinione, è giusto affermare che la danza, in questo senso, ti abbia fatta crescere in fretta? Quali rinunce sono pesate e quali conquiste invece ti hanno spinta a proseguire sulla tua strada?

La danza mi ha fatto crescere in fretta, assolutamente: a soli 11 anni ho lasciato la mia casa e la mia famiglia per inseguire il mio sogno. Tuttavia, personalmente non mi sento di aver fatto nessun sacrificio; i miei genitori, ai quali devo tutto, hanno fatto i veri sacrifici! Io ho solo cercato di essere sempre responsabile e di impegnarmi al massimo, dimostrando maturità e serietà, perché i miei non si preoccupassero e potessero essere fieri di me.

Certo, non ho trascorso un’adolescenza come gli altri ragazzi, non mi sono mai permessa distrazioni, ma l’ho fatto volentieri perché sapevo che stavo lavorando già per il mio futuro.

Qual è stato il momento in cui hai preso atto del tuo destino, l’attimo in cui la danza è divenuta un’urgenza, una vocazione da seguire, una scelta inevitabile per realizzare la tua natura interiore? E quale quello in cui, se c’è stato, hai magari avuto un ripensamento, un istante di sconforto, la paura umanamente lecita di non farcela?

La vocazione è arrivata proprio intorno agli 11 anni, quando ho iniziato l’Accademia di Danza a Roma. E come per ogni vocazione, ho avuto nel corso della mia formazione da ballerina momenti di scoramento, legati soprattutto agli infortuni.

Chi è stata la prima persona a credere in te?

Il mio Maestro Zarko Prebil, grande danzatore e coreografo, oltre che insegnante. È lui che mi ha insegnato cosa significa il rispetto per quest’arte, la disciplina, la passione, la venerazione. E dopo avermi seguita negli ultimi anni dell’Accademia, è stato proprio lui a dirmi che ormai mi aveva insegnato tutto quello che poteva trasmettermi ed era giunto il momento di iniziare a “volare”. Grazie a lui ho quindi avuto la fortuna di perfezionarmi in Russia, patria per eccellenza del balletto classico, presso il prestigioso Teatro Mariinsky di San Pietroburgo.

Provo a immaginare cosa voglia dire salire sui palcoscenici dei teatri più importanti sotto i riflettori del mondo, e mi domando quanta forza mentale ci voglia oltre a quella fisica, allo studio, alla tecnica e alla preparazione del proprio corpo, per farlo dando il massimo di sé anche a livello interpretativo.

La responsabilità che sento prima di esibirmi è la parte più stressante del mio lavoro. Essendo una Prima ballerina, io rappresento la compagnia, il teatro. In palcoscenico sono come il capitano di una nave, in un certo senso. Essere protagonisti dello spettacolo è allo stesso tempo un grande onore, un orgoglio, ma anche un fardello.

L’interpretazione del personaggio non mi preoccupa, anzi è la parte che mi piace di più. Lavoro quindi molto sulla tecnica e sulla preparazione fisica nei giorni prima di andare in scena, ben consapevole che il fattore più imprevedibile è lo stato d’animo che si ha prima di salire sul palcoscenico. Ed è su quello che mi concentro maggiormente nelle ore che precedono lo spettacolo.

Da milanese quale sono, non posso che essere curiosa di conoscere alcuni dettagli della tua esperienza alla Scala come Prima ballerina. A quali ricordi di quel periodo sei più affezionata?

In Scala mi sono formata come interprete di grandi ruoli, come Prima ballerina, come artista. I miei quattro anni a Milano sono stati anni intensi e mi hanno fatta crescere tantissimo.

Ricordo con particolare emozione proprio il momento in cui sono stata promossa Prima ballerina del Teatro alla Scala sul leggendario palco del Teatro Bolshoi. Avevo 23 anni, eravamo in tournée a Mosca. Eris Nezha, mio partner sulle scene e nella vita, era su quel palcoscenico con me ed anche lui è stato promosso Primo ballerino proprio quella sera. Forse la sera più bella della nostra vita.

Cosa ti ha spinta a spostarti poi negli Stati Uniti?

Ho voluto trasferirmi oltre oceano per rispondere al bisogno continuo di rimettermi in gioco, di confrontarmi con nuove sfide. Penso che un ballerino non si debba mai sentire “arrivato”, in quest’arte si deve costantemente aver voglia di crescere e migliorare. Poi ho sempre amato viaggiare, cambiare… non riesco a restare in un posto troppo a lungo.

La danza ti ha fatto conoscere l’amore in tutti i sensi, compreso appunto il tuo compagno e marito Eris Nezha, col quale ti esibirai il prossimo 7 aprile al Teatro Municipale di Piacenza, nell’ambito della Stagione di Danza 2019 della Fondazione Teatri di Piacenza, per il Gala internazionale “Le stelle della danza”. Quali sono i pro e i contro (se ce ne sono) di una relazione in cui si condividono la stessa passione e lo stesso lavoro?

Per me sono tutti “pro”! Mio marito Eris è anche il mio maestro personale, conosce tutti i miei limiti e le mie debolezze. È il mio mentore e il mio punto di forza. È davvero bellissimo lavorare insieme. E ovviamente, essendo dei perfezionisti, ci riempiamo di correzioni a vicenda. L’unico “problema” – ma che poi si rivela sempre un grande vantaggio – è che inevitabilmente ci portiamo il lavoro a casa.

Un’ultima domanda. Si dice che un sorriso possa salvare la vita, ritieni che la danza abbia lo stesso magico potere? Perché io penso di sì.

La danza ha la capacità di sollevare l’animo, di donare speranza, di portare sollievo ad un cuore addolorato, di regalare un sorriso e dare conforto. Con la danza siamo capaci di esternare, di sfogare i sentimenti che abbiamo dentro, ha quindi un vero effetto terapeutico sia per chi balla sia per lo spettatore. E io ne so qualcosa… Quando nel 2016 mi hanno diagnosticato un cancro al rene, la mia più grande paura, prima ancora di morire, era di non poter ballare più. La volontà di tornare quanto prima in palcoscenico mi ha spronata, insieme alle cure mediche e alle attenzioni della mia famiglia. Credo che questo sia proprio uno dei casi in cui la danza ha compiuto un piccolo miracolo nella mia vita.