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Intervista a Giovanni Frangi

La mia intervista a Giovanni Frangi dedicata al suo lavoro e alla mostra Prêt-à-porter a Palazzo Fabroni di Pistoia, Capitale della Cultura 2017.

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“Prêt-à-porter. Giovanni Frangi, il colore e l’immagine.”

A cura di Laura Luppi

 

Pistoia Capitale Italiana della Cultura 2017 ha ospitato la mostra Prêt-à-porter dedicata a Giovanni Frangi presso Palazzo Fabroni, museo del Novecento e del Contemporaneo. Curata da Giovanni Agosti e aperta al pubblico dal 5 febbraio al 2 aprile, l’esposizione suddivisa in 12 sale ha permesso un viaggio attraverso la ricerca poliedrica di Frangi, che nel colore trova il punto di partenza, la strada e l’arrivo. Dalle grandi tele, agli stendardi, dal segno alla scultura l’artista ha sempre indagato il reale senza suggerirne un’interpretazione, ma osservando la natura con l’occhio puro del pittore e restituendola in immagine.

Il luogo ha sempre un’importanza basilare per te nella selezione delle opere da esporre o per la realizzazione di alcune di esse. Ci spieghi come interagiscono con Palazzo Fabroni, sede della mostra Prêt-à-porter?

Palazzo Fabroni è un’antica sede arcivescovile collocata nel cuore di Pistoia. La disposizione delle stanze del secondo piano, che si affacciano da un lato sulla Chiesa di Sant’Andrea e dall’altro sul Fregio robbiano dell’Ospedale del Ceppo, ha condizionato la scelta. Da un lato sei stanze con opere assolutamente monocrome che interagivano con la vista della facciata della Chiesa e dall’altro, anche se il rapporto non era così immediato in quanto più distante, ancora sei stanze ma colorate in una relazione ideale coi colori squillanti degli smalti del fregio. Questa scansione è stata la chiave del progetto dunque per niente Prêt-à-porter ma che, attraverso il mio metodo di lavoro tra colori e bianco e nero, cercava un dialogo con la città.

La tua ricerca artistica è indubbiamente legata al colore, come fosse una sorta di vocazione e conditio sine qua non del dipingere, senza la quale la natura stessa perderebbe non tanto di significato quanto piuttosto di “significante” (per usare un termine caro alla linguistica), cioé di forma. È corretto?

Il colore è sempre stato un elemento determinante del mio modo di dipingere. Trasformavo la realtà attraverso un uso arbitrario del colore. A questo proposito il catalogo della mostra, grazie alla cura di Giovanni Agosti con cui ho fatto molta strada e che ha seguito dall’inizio il progetto, è diventato per me una sorta di palestra interessante. In realtà i cataloghi sono due, il catalogo A contiene tutte le immagini della mostra in cui quelle a colori sono state modificate in bianco e nero, il catalogo B ugualmente contiene tutte le immagini ma quelle in bianco e nero sono state trasformate a colori con la tecnica digitale.

Quello che potrebbe sembrare un gioco grafico si è rivelato una riflessione sulla percezione e, soprattutto per me, uno stimolo per comprendere come il colore abbia sempre delle potenzialità nascoste.

C’è stato un momento, però, in cui hai sentito l’esigenza di “negare” il colore, o meglio di trascenderlo attraverso un confronto difficile e per nulla scontato: quello col nero. Il rosso e il nero, anch’esso in mostra.

Quando mi sono concentrato su Nobu at Elba, la mostra fatta da Panza di Biumo a Varese, mi sono posto il compito di risolvere le mie immagini solo con il nero e le sue variazioni. Franz Hals sosteneva che esistono settantacinque tipi di nero diversi e mi sono reso conto che aveva ragione. La mostra era composta dalla grande immagine di un fiume, che cercava di dare l’idea della notte. Molti pensavano che fossi depresso ma non era vero. In quel “tunnel” ci sono rimasto con delle pause per tre o quattro anni uscendo solo sporadicamente; adesso ogni tanto ci torno perchè lavorare col nero mi aiuta a trovare una sintesi. Anzi, forse come diceva Degas: “Se mi fosse stato possibile assecondare il mio gusto personale non sarei andato di là del bianco e del nero”.

Dal nero al segno. E dal segno alle atmosfere orientali. Penso a un celebre film di Kim Ki-duk intitolato “Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera” e alla dimensione dilatata e sospesa del tempo.

Luca Doninelli insiste sul fatto che dovrei andare in Giappone per respirare un pò quell’aria, e che mi farebbe bene. Non so. Non ci sono mai stato e certamente ci andrò, ma l’attenzione all’Oriente è arrivata senza che me ne accorgessi. Si vede che ho dei parenti che arrivano da lontano…

Ci sono anche i grandi stendardi, tessuti cuciti insieme e poi dipinti. Come dialogano con lo spazio che li accoglie?

I primi stendardi li ho fatti per una piccola mostra al Maxxi a Roma, in concomitanza di un convegno di Jonas. C’era una sala con due colonne di ghisa su cui ho appeso per tre giorni uno stendardo disegnato recto e verso: Strada di giorno e Strada di notte, un titolo rubato a un’opera di Motherwell. Quello che era sembrato uno sforzo eccessivo per un mostra così breve, si era rivelato invece molto utile. A partire da quello è nata la mostra Lotteria Farnese al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, e quindi anche la stanza Jaipur qui a Palazzo Fabroni: una specie di tenda dove il colore varia tra il rosso e l’arancio e si respira un’aria molto indiana. Infatti avevo pensato di mettere dei materassi per terra dove la gente si potesse rilassare un pò, come Robert De Niro nel finale di C’era una volta in America. Ma sarà per la prossima volta…

Infine, o da principio, ancora la natura “come luogo in cui l’infinito pulsa e si manifesta”, seguendo le parole di Massimo Recalcati in Il mistero delle cose (ed. Feltrinelli). Una natura viva, che si trasforma affermandosi in pittura, quella di Giovanni Frangi.

Massimo Recalcati è un mio amico da quando ero ragazzo, e a quei tempi ci eravamo molto divertiti anche con un pò di abusi alcolici. Ora ha pubblicato questo testo importante per Feltrinelli, in cui mi ha messo vicino a degli artisti da storia dell’arte. Mi sono sentito quasi a disagio, ma ha interpretato meglio di ogni altro il problema della notte, della lotta col nero, tutte parole da leggere dal vero.