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Egon. Introspettiva da Klimt a Schiele

La mia recensione sullo spettacolo di danza contemporanea “Egon. Introspettiva da Klimt a Schiele” del danzatore e coreografo Leonardo Diana, compagnia Versiliadanza.

Pubblicato su HESTETIKA N.28 – GENNAIO 2018

“EGON. INTROSPETTIVA DA KLIMT A SCHIELE”

Di Laura Luppi

La nuova produzione della compagnia Versiliadanza riporta l’uomo al centro della sua indagine, con un viaggio introspettivo tra i sogni e gli incubi segreti dipinti da Gustav Klimt ed Egon Schiele agli inizi del Novecento.

Danzare l’arte sembra un compito piuttosto scontato, considerando la danza stessa un’arte per definizione. Eppure non così facile è portare in scena l’arte dei grandi maestri visivi con l’arte della danza. La sfida è ardita, ma Leonardo Diana, coreografo e interprete di EGON. INTROSPETTIVA DA KLIMT A SCHIELE (in prima nazionale al Teatro Cantiere Florida di Firenze a fine ottobre 2017), ci riesce con estrema immediatezza ed eleganza. Diana inizia l’impresa come entrandovi sulle punte, metaforiche e non da ballo, perché sul palco muove i primi passi a piedi nudi, con la carne del suo corpo in una lenta, scomposta eppur armonica convulsione. Lo fa sulle note di musiche originali di Andrea Serrapiglio e Luca Serrapiglio, ispirate a sinfonie di Ludwig Van Beethoven, Johannes Brahms, Gustav Mahler e Arnold Schönberg e sulle quali fin da subito palpitano concitati i gesti di un’altra danzatrice sullo sfondo, prima controparte o lato inconscio del protagonista. Di inconscio in effetti si parla ogni volta che si osserva una delle grandi opere di Egon Schiele (1890 – 1918), con quella schietta e nuda verità che trasuda dai suoi soggetti: apparteniamo tutti al genere umano, combattuto tra emozioni, desideri repressi, nascosti e manifesti, tra senso di colpa e pregiudizio, tra la nostra natura selvaggia, il bisogno di un equilibrio stabile e le forzature della società o – come avrebbe detto Sigmund Freud – tra Es, Io e Super-Io.

Amo i contrasti”, aveva scritto lo stesso Egon Schiele, non a caso. I tempi di Hans Makart (1848-1884), del pittore della grande borghesia di Vienna, erano ormai finiti. L’industrializzazione a cavallo tra i due secoli, con la sua ondata migratoria di manodopera, aveva costretto molte persone a vivere in condizioni disagiate, spezzando l’incantesimo di un presunto benessere. Un senso di inquietudine aleggiava per le vie della città e tra i caffè letterari, di tensione, di incertezza. Dal sogno si era piombati improvvisamente in una sorta di incubo da molti ancora negato, come un’indagine profonda oltre il lato superficiale delle cose, alla ricerca dell’essenza controversa e sconvolgente dell’animo umano nel tentativo di rifuggirla. In questo periodo nascevano le basi della psicanalisi freudiana, le riflessioni logico filosofiche di Ludwig Wittgenstein e le opere di Gustav Klimt (1862 – 1918), tra i primi artisti a recepire appieno il drammatico rivolgimento in atto e a ribellarsi contro la suddetta “epoca Makart”. I soggetti ritratti non erano più i rappresentanti della borghesia, ma i personaggi mitologici dalla forte carica simbolista, con la drammaticità dell’elemento femminile nei panni di una Erinne assetata di vendetta, pronta a ristabilire l’antico ruolo depredato da una società patriarcale e repressiva. “Nuda Veritas” (1899, versione litografica 1898) intitolava una delle celebri opere klimtiane ritenute scandalose dal perbenismo viennese, con quell’erotismo implicito della femme fatale il cui specchio tenuto tra le mani e rivolto allo spettatore esortava a fuggire dalla menzogna, dando il via alla Secessione.

Disprezzato e criticato, il giovane e talentuoso Schiele aveva trovato proprio in Klimt l’approvazione e il sostegno per non lasciarsi condizionare dal gusto accademico imperante e da una morale fin troppo puritana. Nella sua indagine sull’uomo si era già spinto in profondità, verso gli abissi plumbei della natura umana, tra le pulsioni opposte di vita e di morte, e in direzione delle tematiche più imbarazzanti e peccaminose per l’epoca: la sessualità libera e lasciva, l’omosessualità, l’autoerotismo. Si rivolgeva a Klimt come a un maestro, ammirando le donne da lui ritratte con la forza espressiva dei loro sguardi, di corporature scarne, e di quelle mani ossute e suggestive nella modulazione del loro gesto, protagonista e tratto inconfodibile anche delle successive opere di Egon.

Dal gesto, dunque, prende il via EGON. INTROSPETTIVA DA KLIMT A SCHIELE, con drammaturgia di Filippo Figone e Leonardo Diana. Senza filtri o canoni prestabiliti i quattro danzatori – Barbara Carulli, Valentina Sechi, Naomi Segazzi e lo stesso Leonardo Diana – si alternano in intensi assoli per poi interagire come in preda a sensazioni contrastanti. Dapprima sembrano ignorarsi, poi incontrarsi, scontrarsi, attrarsi e negarsi, per fondersi infine in un unico abbraccio fatto di abbandono e angoscia, di passione e solitudine. La presenza di più attori in azione pone inoltre il dubbio che in realtà essi ne rappresentino uno solo, l’uomo, con le sue molteplici sfacettature e personalità da comprendere e domare; la stessa ipotesi teorizzata dalla critica per molte delle opere di Egon Schiele nella sua raffigurazione di un’unica donna osservata da differenti posizioni e prospettive a volo d’uccello, in un’indiscreta intimità da camera. Nonostante suscitassero scandalo, i disegni e gli acquarelli sul tema possedevano la qualità dell’onestà, della verità, nuda e cruda – appunto -, e non priva di una certa ritualità. “Anche l’arte erotica possiede una sua sacralità” scriveva l’artista in una lettera allo zio, e sacro sembra essere il filo emozionale che lega gli interpreti sul palco quanto l’ambiente essenziale che li accoglie, animato da luci ed effetti visivi di forte impatto. Con l’ausilio delle nuove tecnologie adottate da Video PROFORMA (Nicola Buttari, Martino Chiti), del light design di Gabriele Termine e della scenografia di Eva Sgrò, la contemporaneità irrompe in scena senza turbare il clima di fine Ottocento a cui viene fatto riferimento diretto con le vesti tipiche delle modelle di Schiele. La connotazione temporale in fondo non risulta poi così fondamentale, date le tematiche sempre attuali a cui l’opera degli artisti e del coreografo si rifanno: perdersi e ritrovarsi, lottare contro le proprie paure, restarne destabilizzati, attoniti. Inevitabile invece smarrirsi tra i richiami ornamentali e ipnotici tipici dell’arte klimtiana, proiettati nello spazio e sui corpi dei danzatori immersi in un ultimo sofferto ed etereo abbraccio. Un respiro estetico oltre che estatico, soffio di vita e letale attimo fugace.